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La storia corale del cibo e dell'erranza: il "made in Italy" gastronomico

Aggiornamento: 3 apr 2021


Cibo ed erranza raccontano una storia comune. Camminare e mangiare sono due azioni istintive e fondamentali per l’essere umano che lungo la sua storia di civiltà ha attribuito significati sociali importanti a questi gesti. L’essere umano ha cominciato a spostarsi per la necessità di nutrirsi. Successivamente, ha fatto una cosa che lo distinguerà per sempre dagli altri animali: ha iniziato a cucinare. Le donne e gli uomini non si sono limitati a cacciare e raccogliere: hanno coltivato, preparato, scelto, riscaldato, cotto, conservato. Il processo verso la civilizzazione, cioè, può essere raccontato come la storia dell’appetito dell’uomo: è stato lo stomaco, il motore dello sviluppo. Attraverso questo percorso, l’alimento è diventato cibo: espressione culturale e identitaria. Se avere fame è istintivo, alimentarsi è un’azione culturale. Se in occidente ci sembra strano mangiare cavallette ma prelibato gustare gamberi è perché il cibo, la cucina, l’alimentazione e la gastronomia, sono fatti sociali, rappresentativi del nostro passato storico e parte integrante del modo in cui definiamo noi stessi.


Il cibo è dunque un tratto caratterizzante l’identità individuale e collettiva: siamo ciò che mangiamo. Se poi parliamo dell’Italia, e degli italiani, allora il cibo diventa uno degli aspetti centrali e rappresentativi dell’identità nazionale. Mangiare bene –non certo solo nutrirsi- è generalmente considerato dagli italiani come uno degli aspetti più importanti della propria vita. Il cibo è uno degli argomenti più dibattuti, insieme al calcio e alla politica, nelle piazze, nei bar, sui pianerottoli, nei media e nei talk show e, soprattutto, è uno dei pochi ambiti all’interno dei quali chiunque, anche chi non sa cuocere un uovo al tegamino (operazione tra l’altro per niente facile come si usa dire) si sente ‘tranquillo’, ‘orgoglioso’ e ‘sicuro’ della propria superiorità rispetto al resto del mondo (o quasi) solo per il fatto di ‘essere italiano’. Il cibo per gli italiani contemporanei è una delle pochissime certezze rimaste per definire un campo di conoscenza all’interno del quale ci si sente competenti e addestrati da tradizioni ritenute centenarie ad un palato sopraffino. Parlare di cibo è di per sé, per gli italiani, confort food.

Eppure la cucina italiana (o per meglio dire, le cucine, italiane) deve il suo indubbio successo, ieri come oggi, alla capacità di uscire dai propri confini geografici e, facendolo, di mescolarsi, con spirito creativo e di adattamento, a contesti sociali, geografici e alimentari “altri”.


Non potrebbe d’altronde essere diversamente per un popolo che ha sofferto la fame fino almeno alla fine del diciannovesimo secolo e ha conosciuto la completa “sazietà”, nel Sud e nelle zone rurali, solo alla fine degli anni ’60 del ‘900. Non poteva contare che sulla capacità di muoversi e di adattarsi, un popolo che ha conosciuto la sua unità politica, linguistica, culturale e gastronomica molto dopo le altre realtà europee, che è stato governato da popolazioni diverse per la maggior parte della sua storia e che è stato protagonista della più ingente diaspora volontaria moderna: quasi diciannove milioni gli italiani hanno lasciato il paese tra il 1861 e il 1985. Tanto ci siamo spostati negli ultimi due secoli, che sono circa settanta milioni gli oriundi italiani nel mondo.


In questo quadro storico e sociale non stupisce, dunque, che sia in buona parte grazie all’emigrazione (soprattutto verso le Americhe) che la pizza e la pasta sono diventate, per così dire, patrimonio mondiale. Tuttavia, e sta qua la differenza tra una lettura italocentrica della storia e una aperta alla comprensione a alla conoscenza, non sono state solo, né in modo prevalente, la ‘bontà’, la ‘genuinità’ ‘l’autenticità’ di quella cucina ad imporsi. Piuttosto, gli emigranti italiani, per la maggior parte contadini, esclusi in patria dalla nascente civiltà della tavola, nel cibo che non potevano permettersi – come la carne e i maccheroni - vedevano un’ambizione, un punto di arrivo e di riscossa, non certo un sentimento patriottico. Per questo, appena potettero, raggiunto con sudore e fatica la loro fetta di ‘sogno americano’, una delle prime espressioni gastronomiche fu la creazione di uno dei piatti diventato tra i più famosi al mondo e che, non a caso, coniugava insieme due alimenti che in Italia erano consumati in abbondanza in città ma arrivavano di rado in campagna: spaghetti e meatballs, maccheroni e carne insieme.

Molti di quei contadini assaggiarono la mortadella per la prima volta in America e per risparmiare compravano spaghetti americani piuttosto che di importazione italiana. Nessuno di loro rimase fedele alla ‘tradizione’ contadina dalla quale proveniva, tutti rinunciarono di buon grado alla polenta o al pane raffermo, cominciando a mangiare quello che avevano sempre sognato. Vivendo a stretto contatto, nei cantieri e nei palazzi delle Little Italies, siciliani e genovesi, napoletani e piemontesi cominciarono a scambiarsi il loro bagaglio di conoscenze gastronomiche con intensità creando una cucina fusion che nei decenni, con l’apertura di botteghe alimentari, ristoranti e pizzerie ha fatto la fortuna di molti di loro e dei loro discendenti: nella creolizzazione, ibridazione e mescolanza delle loro realtà regionali, gli italiani in America stavano inventando una nuova civiltà – italiana- della tavola.

Dopo, dagli anni settanta in poi, una geniale strategia di marketing ha inventato la tradizione gastronomica Made in Italy che senza dubbio, per varietà e ricchezza, ha con merito continuato a colonizzare il mondo.

Eppure, troppo spesso il sentimentalismo e il nazionalismo gastronomico, spesso unito al richiamo del ritorno al mito contadino, sfociano in vere e proprie forme di patriottismo e di esclusione che Massimo Montanari ha chiamato «leghismo gastronomico» e che usa «nella ‘tradizione’ e nelle ‘radici’ lo strumento di difesa di sé dall’altro, anziché di incontro con l’altro»

Invece, come ogni l’identità, anche quelle gastronomiche si arricchiscono di nuovi aspetti e ne abbandonano altri durante il cammino: ogni piatto è un mirabile esempio di meticcio culturale stratificato nei secoli. Identità e scambio, noi e loro, tradizione e innovazione non sono, come spesso vengono trattati, binomi contrapposti. Contrapporli, si sposa alla diffidenza verso il diverso, alla paura della contaminazione e a forme più o meno esasperate di chiusura e di intolleranza. In quest’ottica, la storia è spesso intesa come il luogo delle “radici”, delle “origini” e il cibo “genuino” è quello “locale”, “autentico”, “tradizionale”, che nasce e muore, per così dire, dentro a un territorio. Eppure proprio la storia alimentare italiana mostra come sia l’unità che l’identità gastronomica e culinaria del belpaese sia nata e poi si sia sviluppata fuori dai propri confini, sia regionali che nazionali, arricchendosi dei tratti culturali e culinari di altri paesi, viaggiando attraverso la storia dei migranti, dei commercianti, dei pellegrini, dei cuochi, dei professionisti, dei contrabbandieri, di esuli politici e dei perseguitati per motivi religiosi.

Attorno al pellegrinaggio e all’erranza, d'altronde, si è sviluppata nei secoli una vera e propria cultura, nella quale l’alimentazione occupa una posizione centrale. La stessa osteria nacque intorno al ‘300 proprio in risposta all’incremento dei viaggi commerciali e religiosi. Ubicate nelle aree di passaggio o di commercio divennero presto luogo d’incontro e d’interazione. Strutture povere, dismesse, malfrequentate e di pessima fama, appena migliori delle taverne alto-medievali, le osterie acquistavano importanza intorno all’incremento del giro di scambi e affari, offrivano cibo, alloggio e molto vino (di dubbia qualità). Il rapporto indissolubile tra cibo, ospitalità e viandanza era sancito per legge: nelle osterie potevano accedere esclusivamente i forestieri.

L’Italia, in questo contesto, è stato spazio di movimento imprescindibile, luogo di transito lungo le rotte commerciali del Mediterraneo e attraversata dalla strada che conduceva i pellegrini a Gerusalemme o li vedeva fermarsi a Roma dopo la predita della Terrasanta da parte della Chiesa. La maggior parte delle zuppe oggi rinomate, apprezzate ed esaltate dalle sagre fino ai ristoranti a cinque stelle, nasce dalla commistione tra il pane raffermo dei viandanti e l’incontro casuale con una pentola di verdure che bolle (è questa la storia, ad esempio, dell’acquacotta maremmana). Ma il cibo per un viaggiatore non è solo necessità: è anche occasione d’incontro e di scambio di saperi. Lungo le tappe del suo viaggio, il cibo è un premio per le fatiche, è un attributo identificativo, un mezzo e un pretesto di comunicazione: è un linguaggio. Seguendolo dai poli opposti delle sue più famose rappresentazioni, veloce (fast) o lento (slow), il cibo fa sicuramente una cosa: si sposta.

Per questo motivo, le biografie alimentari (vedere Vito Teti su questo concetto) e le rotte del cibo contribuiscono a rappresentare al meglio la dimensione errante della storia dell’umanità. Cibo ed esseri umani hanno sempre viaggiato insieme e le loro identità sono il risultato (mai definitivo), fluido e cangiante, di questo errare. Non sono tanto le radici ad essere interessanti nella storia umana e gastronomica ma piuttosto gli itinerari, gli incontri, le contingenze storiche sociali e biografiche che hanno deciso il destino di un piatto, di un ingrediente, di un’abitudine alimentare, di persone, famiglie o intere economie. E sono proprio questi i percorsi che Altropasso andrà a cercare. L’alimento, il piatto, l’ingrediente o la ricetta saranno il pretesto per raccontare una storia che parla di cibo e di territorio, di ibridismo culturale e di accoglienza.



Foto di Irene Pellegrini dal libro "Italiano on the road" Sociograph, Università di Ginevra, forthcoming

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